lunedì 5 settembre 2005

Qualifica: senatore. Partito: Cosa nostra







Grande indifferenza per le motivazioni di condanna del senatore Marcello Dell'Utri (mafia e potere). Peccato, era un pezzo della nostra storia. Bombe, soldi, stragi: l'Iraq noi l'abbiamo già conosciuto

Non siamo stati ancora colpiti, in patria, dal terrorismo islamico, ma gli «analisti» prevedono che possa essere colpita a breve termine Roma, oppure Torino in occasione delle Olimpiadi. Oppure chissà quale altra cosa.
Il terrorismo oggi alimenta grandi movimenti di denaro. Molti sono interessati al terrorismo: i terroristi, naturalmente, ma anche i venditori di security: la security rivaleggia oggi con la new economy, con il vantaggio che i cinesi non ci sono ancora arrivati a offirla a meno. C'è un sacco di gente che dice di saperla lunga su questi argomenti.
C'è anche un sacco di gente che ci ha guadagnato, nelle Borse, in occasione di attentati. Settore futures. Noi italiani facciamo fìnta di non sapere molto, ma in realtà conosciamo abbastanza la materia.
Tredici anni anni fa, il 19 luglio 1992, Cosa nostra non esitò a fare saltare un'intera strada di Palermo, pur di uccidere il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Cinquanta giorni prima non aveva esitato a far saltare un pezzo di autostrada, pur di eliminare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la loro scorta. L'anno dopo, in una impressionante catena, Cosa nostra piazzò bombe a Firenze, Roma e Milano e mancò solo per un disguido tecnico una strage allo Stadio Olimpico di Roma.
All'epoca non esisteva il terrorismo islamico (bin Laden era solo un eccentrico miliardario, al Zarqawi un ragazzo giordano un po' balordo) e Cosa nostra lanciò il più tremendo attacco terroristico che l'Europa avesse conosciuto da molti anni. Che cosa voleva? «Attaccare frontalmente lo Stato italiano per costringerlo al proprio servizio», si disse. Poi tutto si fermò e, come tutti sanno, Cosa nostra (decapitata nella sua componente militare) è stata tutto sommato tranquilla fino a oggi: ha rinunciato ai suoi propositi, ha ottenuto quello che voleva, ha patteggiato, è stata definitivamente sconfitta? Qualsiasi sia la risposta, è comunque certo che il panorama della sicurezza in Italia è decisamente cambiato e noi italiani dovremmo essere considerati nel mondo i maggiori conoscitori di lotta al terrorismo, battuto con una determinata repressione, una sapiente intelligence, l'autonomia della magistratura, la coesione e la moralità sociale, l'individuazione e il prosciugamento dei canali finanziari della criminalità.
Mi venivano in mente questi bizzari pensieri osservando la situazione, una settimana fa, dal «cuore della bestia», la città di Palermo, la nostra ex Baghdad. C'era uno sciopero dei magistrati (adesione all'82 per cento e propositi molto determinati di opporsi alla riforma della giustizia, percepita come evidente impedimento alla possibilità che in futuro ci possano essere inchieste che tocchino il potere politico ed economico); c'erano 400 mila persone in piazza in una lunga notte di festa per santa Rosalia, e il giorno dopo le «congregazioni» in processione, con volti, sguardi, bigottismo ed espressioni di una miseria che pareva essersi trascinata uguale nei secoli.
Mercoledì 13 luglio veniva anche depositato alla cancel leria del tribunale un corposo documento: le 1.800 pagine di motivazione della condanna di primo grado del senatore Marcello Dell'Utri a nove anni di carcere (sette anni al suo coimputato Gaetano Cinà) per concorso esterno in associazione mafìosa. Era un documento molto atteso, suggello di una clamorosa condanna, la prima del genere in tutta la storia d'Italia e soprattutto al termine di un processo durato anni, in cui l'accusa aveva portato decine di «collaboratori di giustizia», centinaia di testimoni, intercettazioni, documénti e perizie bancarie, ricostruzioni della nascita e dell'ascesa di partiti politici. Bene, la stampa nazionale ha praticamente ignorato l'evento, relegandolo in colonnini, la tv l'ha semplicemente taciuto, la politica se n'è infischiata e il condannato ha liquidato le 1.800 pagine come «inutilmente ripetitive». Sembrava davvero annoiato.
A parere di tutti, ben diversamente sarebbe andata la questione se il senatore Dell'Utri fosse stato assolto. Lo avremmo visto - modesto come Giulio Andreotti raccontare il suo calvario in tutte le possibili versioni di Porta a porta, lo avremmo sentito ricordare la sua pietas, la sua adesione all'Opus Dei, il suo sodalizio ideale con Berlusconi, le tante realizzazioni fatte e le tante da fare, l'amore per i libri antichi e per la cultura. Avrebbe, naturalmente, citato il martirio di So-crate. E avrebbe, con voce sommessa, fatto presente l'infamia dei «pentiti», la protervia dei giudici comunisti, l'insondabile palermità della palermitudine, l'inesistenza della mafia e casomai, al massimo, la sua essenza di mero stato d'animo. Antonio Ingroia, che insieme al collega Giovanni Gozzo ha rappresentato l'accusa in uno dei più grandi processi italiani, ironicamente commenta: «Lui sarebbe diventato santo, io sarei stato esposto al pubblico ludibrio».

  • La carriera di un «ambasciatore».
Così non è andata. E a questo punto vale davvero la pena raccontare cosa è scritto nelle «inutilmente ripetititve» 1.80o pagine che motivano la condanna del senatore Marcelle Dell'Utri.
Accusato di essere stato, nell'arco di trent'anni, un «ambasciatore» di Cosa nostra «negli ambienti imprenditoriali del Nord», Marcello Dell'Utri è stato condannato perché sono state provate (dalla sentenza di primo grado, naturalmente; l'appello e la Cassazione possono ribaltare la sentenza) le accuse di aver favorito e rafforzato il potere di Cosa nostra. Come? Be', parecchio. Se Dell'Utri avesse stock options di Cosa Nostra, oggi da manager potrebbe diventare padrone o appena sorto. Il tribunale ha ritenuto attendibili e fondate le seguenti circostanze:
- Dell'Utri (anni Settanta) prese in consegna, per conto di Cosa nostra, il giovane palazzinaro milanese Silvio Berlusconi, che la stessa Cosa nostra aveva minacciato di morte. Gli offrì protezione, mettendogli accanto uno dei suoi più importanti boss palermitani, Vittorio Mangano, capo della «famiglia» di Porta Nuova. Questi si sistemò nella villa di Arcore condividendone la proprietà con il legittimo padrone e utilizzandola come base per le attività mafìose di Milano.
- Marcelle Dell'Utri (sempre anni Settanta) fece da tramite con le famiglie mafìose di Palermo e aiutò la nascita della Fininvest di Silvio Berlusconi, partecipando al finanziamento della stessa con i capitali del capomafia Stefano Bontate, che investì decine di miliardi nella nascita di una grande televisione commerciale in Italia. In seguito (anni Ottanta) si adoperò per ulteriori finanziamenti mafiosi per acquisire i diritti di grandi film americani da trasmettere sulle reti Fininvest. Dopo l'assassinio di Stefano Bontate (il business partner di Silvio Berlusconi), Dell'Utri fu parte attiva nell'assegnazione del suo investimento passato nelle mani dell'assassino Salvatore Riina. La sua opera di mediazione fu contemporanea alla stagione delle stragi in Italia (Bontate viene ucciso nel 1981. Il potere passa a Provenzano e Riina, i corleonesi, che gestiscono una mafia all'apogeo dei suoi affari, soprattutto attraverso gli enormi guadagni del commercio dell'eroina. La De andreottiana, da sempre protettrice di Cosa nostra, da cui ottiene consensi elettorali, si dimostra pavida e non riesce a impedire un maxiprocesso che condanna a secoli di galera il gotha dell'organizzazione e ne svela i segreti. Cosa nostra allora appoggia i socialisti e liquida i conti con i democristiani uccidendo il braccio destro di Andreotti in Sicilia, Salvo Lima).
- Quando Berlusconi si trovò in difficoltà finanziarie, di nuovo si rivolse a Dell'Utri, che lo aiutò a risolvere minacce di morte ai suoi familiari, attentati alle sue filiali Standa in Sicilia (Anni Novanta).
- Crollato il sistema politico italiano sotto i colpi dell'inchiesta milanese di «Mani pulite», Dell'Utri si fece parte attiva nell'escogitare una nuova formazione politica che garantisse gli interessi di Cosa nostra. Scartò numerose possibilità e infine convinse lo stesso Silvio Berlusconi a gettarsi nell'agone politico. Fu l'ideatore di «Forza Italia», l'inaspettato movimento politico che nel giro di pochi mesi vinse le elezioni del 1994 ed elesse Berlusconi presidente del Consiglio e che poi lo rielesse nel 2001.
- I contatti tra Dell'Utri e Cosa nostra continuano fino agli ultimi anni della nostra vita politica. Il condannato ha da trent'anni favorito l'organizzazione mafiosa, rafforzandola e aprendole le porte del mondo dell'imprenditoria milanese, e poi dell'economia nazionale e infine della politica.
Esaminate migliaia di carte, il giudice Leonardo Guar-notta e i giudici Gabriella Di Marco e Giuseppe Sgadari, che hanno poi scritto le motivazioni, hanno così concluso un lavoro durato molti anni. Le 1.800 pagine delle loro motivazioni di condanna sono scritte in linguaggio pacato, attento a riportare fatti e riscontri. E, dato che i riscontri sono migliaia, l'effetto dell'understatement è devastante. In un unico punto i giudici si permettono un breve commento ed è una storia che vale la pena ricordare.
L'accusa, sulla scorta di varie testimonianze, aveva sostenuto che Cosa nostra, principalmente nella persona di Stefano Bontate, aveva finanziato gli inizi della Fininvest di Silvio Berlusconi. Come provarlo? Il finanziatore era stato ammazzato e, di certo, carte dal notaio non ne esistevano. Esisteva però una complicatissima architettura finanziaria della Finivest, costruita su decine di holding molto opache. L'accusa chiese una perizia, che confermò quella opacità. La difesa di Dell'Utri presentò una propria perizia, che però, per i giudici, non dissipò affatto i dubbi.
E così, per sapere, per esempio, se i compensi di Mike Bongiorno, Iva Zanicchi o Raimondo Vianello venissero dalle tasche dei tossicodipendenti che pagavano con efficiente regolarità Stefano Bontate, non restava che chiedere a Silvio Berlusconi, l'amico fraterno di Marcelle Dell'Utri, fondatore e animatore della più grande tv commerciale italiana. Animato dalle migliori intenzioni, il tribunale di Palermo ottenne, dopo vari rinvii, di poter interrogare il patron della Fininvest, diventato nel frattempo presidente del Consiglio. Il presidente del Consiglio li ricevette a Palazzo Chigi il 26 novembre del 2002 e li fece accomodare nella sala dal lungo tavolo che spesso viene fotografata perché ospita gli incontri del governo con le parti sociali. Berlusconi si sedette a capo della tavola e, lontanissimo, dall'altra parte era seduto il pm Antonio Ingroia. In mezzo, da una parte il giudice Leonardo Guarnotta e dall'altra un piccolo stuolo di avvocati palermitani di Dell'Utri, più l'avvocato e parlamentare di Forza Italia Niccolo Ghedini, difensore del presidente. Il presidente (in precedenza imputato di reato connesso) aveva facoltà di non rispondere e questo gli fu reso noto dal giudice Guarnotta. Il presidente disse che non voleva rispondere e allora il pm Ingroia provò una sorta di mozione degli affetti. Chiese accoratamente di dire, spiegare quelle strane holding di cui nessuno capiva molto, di sostenere il suo amico Dell'Utri con una parola definitiva, cominciò a elencare le domande che avrebbe voluto fargli. Il giudice Guarnotta lo interruppe, l'avvocato Ghedini disse al presidente di non rispondere, il presidente, leggermente rabbuiato, disse che accoglieva l'invito del suo avvocato e la riunione si sciolse. I giudici vennero fatti uscire da una porta laterale di Palazzo Chigi e videro in tv la sera che gli avvocati del presidente, usciti dalla porta principale di Palazzo Chigi, diffondevano notizie sulla serenità del presidente.
Così andò. Siccome in Italia molti sono esterofili, molti si sono chiesti se Blair o Chirac o Schroeder, richiesti di spiegare l'origine dei loro patrimoni, si sarebbero comportati nella maniera di Berlusconi. Molti, in verità, da anni si chiedono se quei Paesi avrebbero mai permesso a un loro Berlusconi di diventare presidente del Consiglio. Ma, si sa, l'Italia è diversa. È sempre un passo avanti, tanto è vero che inventò il fascismo al potere undici anni prima del nazionalsocialismo di Adolf Hitler.
Scrivono i giudici in una delle «inutili e ripetitive» 1.800 pagine:
«Nel corso dell'udienza del 26 novembre 2002, tenutasi nella sede istituzionale di Palazzo Chigi, l'on.le Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri in carica, sentito nella qualità di indagato per il reato di riciclaggio (lo stesso in ordine al quale era stato indagato Marcelle Dell Utri), si è avvalso della facoltà di non rendere interrogatorio.
L'on.le Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice di rito ma, ad avviso del Tribunale, si è lasciato sfuggire l'imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente (il sottolineato è nel testo, ndr) chiarezza sulla delicata tematica in esame, inidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare.
Invece, ha scelto il silenzio».

  • Nessuno venne a chiedere te carte.
Tutto era calmo a Palermo, il giorno in cui il tribunale depositò le sue 1.800 pagine sulla recente storia d'Italia. Raffale Lamantia, responsabile sindacale a Palazzo di Giustizia e addetto alle pratiche di cancelleria, si aspettava che molti venissero a chiedere copia delle motivazioni e sapeva di non avere abbastanza carta per le fotocopie, per la cronica carenza di mezzi che affligge la giustizia italiana. Ma in realtà non ci fu ressa. A dire il vero, proprio nessuno venne a chiedere copia.
Se uno ricorda che vent'anni fa, sulla possibilità che un certo Salvo Lima, che al massimo raggiunse per breve tempo la carica di sottosegretario di uno dei tanti ministeri democristiani, potesse anche solo essere «nominato» come «colluso» con la mafia, si sviluppò un dramma nazionale.
Se uno ricorda che di Lima come mafioso, il super pentito Tommaso Buscetta parlò solo dopo il suo assassinio, tale era la sua paura delle conseguenze nel fare quel nome, lui vivo.
Se uno ricorda che in attesa della sentenza Andreotti, una certa Italia (praticamente tutta l'Italia politica) sosteneva che non lo si poteva condannare perché, così facendo si sarebbe condannato l'uomo politico più popolare del Paese e quindi la storia del Paese e che il Paese intero non poteva tollerare l'idea di essere stato governato ai mezzi con la mafia. Se uno ricorda la soddisfazione nazionale quando lui venne assolto (non proprio, in verità: prescritto).
Se uno ricorda queste vecchie storie, non potrà non considerare la stranezza degli avvenimenti odierni. Ovvero: il senatore Marcelle Dell'Utri, braccio destro politico del presidente Berlusconi (l'altro braccio si chiama Previti: e t'ho detto niente), è condannato, con ampia dovizia di dettagli, per essere stato l'uomo di Cosa nostra nell'economia nazionale e nella politica nazionale. E tutti stanno zitti. Lui stesso, il Marcello, sta zitto, non si mette nemmeno più a gridare contro il complotto comunista. Organizza eventi culturali e annota con piacere che la buona borghesia del collegio di Milano i che lo ha eletto senatore (mica il letame mafioso che lo fece diventare deputato europeo in Sicilia, tema su cui le 1.800 pagine si soffermano) non lo ha ripudiato. Una bella parte della De, di fronte a Salvo Lima, si ribellò e lo disse. Nessuno in Forza Italia, finora, si è ribellato a DeH'Utri.
Quasi che lui, pur condannato, sia il vincente. Berlusconi prese soldi dalla mafia per fare il suo impero? Sì, forse,
perché no? Giustamente si avvale della facoltà di non rispondere. D'altra parte, così andavano le cose in quegli anni: chi non avrebbe preso dei finanziamenti per mandare avanti un'azienda? Te li davano forse le banche, i soldi? Ora il Dell'Utri prepara l'appello e questa volta, invece che ai palermitani, si sffida a un grande studio milanese. Vuoi vedere che Forza Italia (cioè lui, ai mezzi con Cosa nostra) lo ricandida nel collegio di Milano i e i buoni borghesi milanesi lo rivotano, questa volta non come perseguitato, ma come efficiente manager, «benché terrone, è uno di noi e ha le palle»? E la Fininvest, che oggi si chiama Mediaset ed è quotata in Borsa, non si è forse ripulita dei suoi inizi e rappresenta oggi la più grande ricchezza italiana?
Ministero degli Attentati Sventandi. Più o meno e così. Le motivazioni di condanna per mafia a Marcelle Dell'Utri funzionano paradossalmente per la sua legittimazione. Ha avuto ragione lui: la mafia non spara più; il ministro Tremonti ha riportato in Italia i suoi capitali sporchi riciclandoli in puliti all'irrisoria commissione del due per cento, mentre prima chiedevano molto di più; con quei soldi alcuni ragazzetti, oggi dominatori dell'economia italiana e in particolare delle sue banche, hanno comprato e venduto case e guadagnato miliardi. Marcelle Dell'Utri ha ragione di essere annoiato per la condanna. Lui pensa che dovrebbe essere lui, piuttosto di Silvio, il presidente del Consiglio. E, se c'è da risolvere problemi di terrorismo, potrebbe dare una mano. Ci ha avuto a che fare, ha dei numeri di telefono, che forse nemmeno la Cia ha. Ha speso una vita come ambasciatore e mediatore della mafia, smussandone il tremendismo.
Nessuno vuole un attentato in Italia, tutti però lo considerano molto probabile. Io, se fossi il Ministro Competente agli Attentati Sventandi, convocherei il buon vecchio Marcello e gli garantirei, in cambio, un buon trattamento nel processo di appello. In fin dei conti, se Cosa nostra è al governo in Italia con il beneplacito di tutti, vediamo almeno di sfruttare la situazione, no? Certo, poi lui chiederebbe un sacco di soldi e un sacco di altre cose. Ma, in fin dei conti, qualche cosa ai picciriddi bisognerà dargliela.


Integralmente riportato da "diario 2272005"
Enrico Deaglio



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